LA GUERRA E I MIEI SANDALI

Il 20 marzo del 2002 facevo parte di una delegazione di giovani che portava la lampada della pace a Simon Peres e a Yasser Arafat.
Quel giorno, dopo aver incontrato in quel viaggio giovani ebrei distrutti e spaventati dai terroristi palestinesi che – in quel periodo – si facevano saltare in aria negli autobus pieni di gente e dopo esserci confrontati con giovani palestinesi segregati in casa e stanchi di non poter uscire dai territori, ho deciso di mettere i sandali fino a quando non ci sarebbe stata la pace. Più che un “fioretto”, una follia!
In tutti questi anni ho visto tanta gente difendere la posizione israeliana o quella palestinese. Io non parteggio. So bene che la situazione è molto più complessa e che “tifare” per qualcuno non ha senso.
Posso solo portare i sandali (per ricordarmi della promessa fatta a quei giovani di lavorare per la pace) e pregare.
Ma c’è una cosa che ho capito in tutti questi anni. E l’ho capita in particolare modo da quando sono sposato e sono diventato padre.
La pace si impara in famiglia. Perché è un fatto concreto, non un’ideologia. E in famiglia ho compreso che nonostante sui libri ci venga insegnato che giustamente “non c’è pace senza giustizia”, nella realtà non basta.
Negli anni ho compreso che non può esserci pace senza perdono. È la cosa più difficile del mondo, ma è la sola cosa che risolve definitivamente i conflitti.
Sono due giorni che ho una tristezza grande nel cuore nel vedere Gerusalemme, città Santa per tutti, in guerra.
Davvero non c’è da tifare.
C’è da pregare.
Adesso – chi non lo sapeva – conosce la storia dei miei sandali che dopo 19 anni – purtroppo – hanno ancora un senso.

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